Le tende rosse del Teatro Lirico di Cagliari si aprono, l’orchestra comincia a suonare le note di Puccini e le sculture di pietra del celebre artista sardo Pinuccio Sciola dominano la scenografia. Gli attori della Turandot calcano il palco. Ma c’è qualcosa di diverso: lo spettacolo si può vedere via social attraverso le immagini catturate da degli occhiali interattivi, i Google Glass. Siamo nel 2014, e a dieci anni di distanza queste serate nel capoluogo cagliaritano sono rimaste impresse nella memoria.
Agosto è il mese giusto per ripensare a progetti come questo che hanno segnato una svolta nel connubio tra tecnologia e cultura, un nuovo modo di concepire l’arte scenica, grazie all’uso della realtà aumentata e dei Google Glass.
La genesi del progetto
Tutto partì da un co-design nato tra Nicola Fioravanti, al tempo responsabile dell’innovazione per il Teatro Lirico di Cagliari e Alessandra Spada, woman tech e co-founder di Catchy. Nel 2014 la PMI Innovativa di Intelligenza Artificiale però non esisteva ancora, e Alessandra era socia di minoranza, CTO e responsabile del Laboratorio di Ricerca e Sviluppo di una piccola società chiamata TSC Consulting, con sedi a Roma e Cagliari. La società, che nel corso degli anni ha conosciuto una crescita significativa fino a essere acquisita dal gruppo Alkemy, si è distinta fin da subito per l’approccio innovativo.
Nell’aprile del 2014, TSC Consulting, con un team di giovani ingegneri e sviluppatori software, avviò una collaborazione con il Teatro Lirico di Cagliari per un progetto di ricerca e sperimentazione. L’obiettivo era ambizioso: applicare la realtà aumentata e la comunicazione social a un nuovo service design, utilizzando tecnologie immersive per valorizzare scenari culturali e sociali apparentemente inaccessibili e ostili.
Il progetto con il Teatro Lirico di Cagliari
Da qui nacque un progetto innovativo che unisse la tradizione dell’opera lirica con la modernità dei nuovi apparati. Il risultato fu un format completamente nuovo per la Turandot, messo in scena tra la fine di luglio e il mese di agosto del 2014 con ben sette spettacoli. Durante le rappresentazioni, il tenore, la soprano, gli acrobati, il direttore d’orchestra, i musicisti e persino alcuni spettatori furono dotati di dispositivi di realtà aumentata, i Google Glass, e di un’applicazione dedicata chiamata Semestene.
Questa applicazione consentiva di scattare foto e condividerle in tempo reale sui social network, offrendo una prospettiva unica dell’opera, sia dal palco che dal dietro le quinte. Gli spettatori non erano più semplici osservatori passivi, ma diventavano parte attiva dell’evento, contribuendo a una narrazione collettiva e immersiva dell’opera tramite i loro dispositivi.
Il sovrintendente del Teatro nel 2014, Mauro Meli
Mauro Meli, all’epoca sovrintendente del Teatro Lirico di Cagliari, ricorda nel decennale l’impatto che ebbero gli occhiali: «uno straordinario e fascinoso, modernissimo rinforzo alla promozione di Turandot». L’ambizione di rendere memorabile la rappresentazione era davvero forte: «Stavamo costruendo uno spettacolo che ci sembrava unico, e infatti, immodestamente, lo fu. Era musicalmente e teatralmente straordinario, con le famosissime scene di Pinuccio Sciola».
Meli ha anche evidenziato l’audacia e l’innovazione del progetto: «In Sardegna, a Cagliari, ci inventammo delle cose old fashion, come le biciclette con la bandierina di Turandot, i volantini distribuiti al Poetto, e perfino un aereo con la coda che portava la scritta “Turandot al Teatro Lirico di Cagliari”. Volevamo qualcosa che arrivasse ai giovani, e fu davvero così perché il linguaggio dei social era l’unica via per comunicare con loro, già da allora».
Un aspetto nuovo fu l’idea di utilizzare i Google Glass in un contesto culturale tradizionale dando un punto di vista diverso allo spettatore: «L’intuizione fu quella di fornire gli occhiali agli artisti o all’orchestra, in modo da poter registrare e trasmettere in rete delle immagini fuori dagli schemi dall’interno dell’azione scenica».
Il ruolo del design della comunicazione
Anche Carlo Turri, esperto di design della comunicazione, giocò un ruolo cruciale nel successo del progetto. Turri si era unito al team tramite un bando aperto dalla Regione Sardegna e portò la sua esperienza unica nell’integrazione del visual nell’applicazione Semestene. «Mi sono trovato coinvolto in questo ambiente dove ero l’unico designer, ma ero circondato da programmatori e creativi digitali di primo livello. Il mio compito era di dare veste visiva alla tecnologia, sia che si trattasse di un prodotto, di un servizio o dell’impresa stessa», ricorda Turri.
Nel caso specifico dell’utilizzo dei Google Glass per la Turandot, Turri contribuì a comunicare l’essenza del progetto andando oltre il semplice “effetto wow” iniziale. «L’idea era di espandere la dimensione dell’opera in termini di spazio e di tempo, portando lo spettatore nel backstage e offrendo molteplici punti di vista attraverso l’uso dei Glass», spiega Turri. «Questa era un’opportunità per creare una narrativa continua che si estendesse oltre l’ora e mezza di spettacolo, permettendo agli spettatori di connettersi prima e dopo l’esperienza dal vivo».
Il designer sottolinea come l’integrazione tra il visual e la tecnologia fosse fondamentale per il successo del progetto. «Da sola la tecnologia non fa nulla», afferma. «Ma se applicata con creatività, mediata e organizzata in modo intelligente, crea una comunicazione piena e sensata. Questo è ciò che abbiamo cercato di fare».
L’evoluzione dei social media come li conosciamo oggi e la diffusione di contenuti video brevi avrebbero amplificato ulteriormente l’esperienza offerta dai Google Glass. «Lo stesso esperimento fatto nel 2024 avrebbe molta più risonanza grazie alla cultura dei micro-video su piattaforme come YouTube, Instagram e TikTok. Alessandra in quel momento storico aveva messo bene a fuoco che la cosa più importante erano i social e far fluire il prodotto lì era la chiave», afferma Turri.
«Sfruttare un occhiale come quello di Google, poco intrusivo e molto pratico, era una buona idea. Gli artisti dal palco con un tocco potevano registrare, scattare e inviare tutto alla base di controllo dove poi si selezionavano le immagini idonee per metterle in sincrono nel web. Quindi, no, non era un oggetto che avrebbe ragionevolmente potuto sostituire i telefonini proprio per una questione di spazio e di visione. Ma la connettività era fondamentale, e Alessandra questo lo sapeva».
Nonostante alcune criticità e il costo elevato dei dispositivi (che arrivavano direttamente da Mountain View), sostenuto da TSC Consulting grazie alla lungimiranza del CEO Francesco Beraldi, l’iniziativa di Cagliari ha lasciato un segno duraturo nel panorama italiano. «Era un decennio dorato, e il design ha giocato un ruolo fondamentale come mediatore tra l’innovazione tecnologica e la fruizione culturale» conclude Carlo.
Il futuro della realtà aumentata secondo Alessandra Spada
Anche Alessandra Spada, protagonista del progetto con i Google Glass, ha offerto la sua visione sul futuro di questi strumenti. «In un mondo come oggi, nel 2024, quegli occhiali cosa avrebbero potuto fare o innescare sui social?» si domanda. «Molto è cambiato rispetto a dieci anni fa. Allora gli occhiali erano costosi e non disponibili ovunque, creando una barriera all’adozione. La tecnologia non era ancora pronta per un mercato di massa».
Spada riflette su come l’evoluzione abbia colmato questo divario: «Oggi questo tipo di dispositivi sono pronti per qualsiasi uso, ma non vengono ancora diffusi in tanti settori dove potrebbero essere più fruibili. Nonostante gli investimenti nel settore, per esempio da parte di Meta, le principali piattaforme social non hanno ancora adottato le tecnologie immersive come canale privilegiato per la condivisione, quindi l’impatto rimane limitato ad applicazioni verticali. Tutto si fa oggi con il telefono, siamo abituati e ci troviamo bene».
Guardando agli scenari di sviluppo, oltre il settore del gaming, la fondatrice di Catchy vede possibilità diverse per l’utilizzo di sistemi immersivi: «Più che per la condivisione social, vedo un forte potenziale nell’adozione in ambito industriale, nella formazione e soprattutto nella comunicazione assistita e integrativa, per esempio per persone con disabilità, per trarre beneficio da aumenti sensoriali, sia visivi che uditivi. Questi sono gli ambiti in cui vedo una reale utilità».
Sfide e successo dell’esperimento
L’introduzione di tecniche avanzate nel 2014 non fu priva di sfide. Inizialmente, ci furono rimostranze, per la preoccupazione per l’impatto che tali innovazioni avrebbero potuto avere sui lavoratori del teatro. Tuttavia, l’interesse verso il progetto crebbe rapidamente. Gli artisti e i dipendenti del Teatro Lirico iniziarono a percepire i Google Glass non solo come un gadget all’avanguardia, ma come uno strumento capace di arricchire e ampliare l’esperienza operistica.
Secondo Meli, l’impatto mediatico del progetto fu enorme: «Non ci fu un sito nel mondo, un giornale online o cartaceo, una televisione che non parlò di questa cosa. A Cagliari finalmente venivano usati e l’esperimento Google Glass fu una cosa per noi clamorosa. La campagna promozionale superò i 10 milioni di contatti, segnando un successo straordinario».
Un progetto invecchiato benissimo
A distanza di dieci anni, il progetto Turandot resta un esempio pionieristico di come la tecnologia possa essere applicata in ambiti tradizionali per creare nuove forme di espressione e coinvolgimento del pubblico. «Il futuro della realtà aumentata in un teatro? Io lo vedo molto bene, a condizione che a comandare sia sempre la musica e il prodotto artistico», ha concluso Meli.
Anche Turri è dello stesso avviso: «Le idee migliori sono proprio quando non si usa la tecnologia perché c’è ma perché è nuova. Bisogna trovare l’incrocio tra il potenziale che offre e il giusto campo applicativo e il giusto contesto. A distanza di dieci anni il progetto mi sembra invecchiato benissimo».
Agosto è davvero il mese giusto per riflettere su come innovazioni simili possano continuare a trasformare il nostro modo di vivere la cultura. E come suggerisce l’ex sovrintendente, “provarci è un dovere”, per scoprire nuove applicazioni e capire che non servono solo per l’intrattenimento, ma anche per migliorare la qualità della vita di tutti noi.
Articolo realizzato da Laura Pace, studentessa del Master in Giornalismo e Comunicazione multimediale della Luiss Guidi Carli