“La verità è morta?”. È la domanda che campeggia perentoria sulla copertina dell’ultimo numero di TIME; logico quesito dopo che, lo scorso novembre, l’Oxford Dictionary ha sancito “post-truth” come parola dell’anno 2016. Un termine già circolante dal 1992, ma conosciuto dal grande pubblico solo dopo la scelta dell’istituto inglese, come mostra chiaramente una ricerca su Google Trends. Certo, il fatto che spesso tra la realtà e i suoi racconti esista una certa distanza mascherata a fini politici ed economici non è una scoperta recente. La “post verità” è però un nome per un aspetto particolare di questo fenomeno, aspetto che i fatti politici, da Brexit al successo elettorale di Trump, avevano già messo davanti agli occhi degli operatori dell’informazione. Nel formare l’opinione pubblica e il consenso politico sono più efficaci i fatti, la veridicità dei racconti comunicati da un giornale o da un candidato, oppure le emozioni che questi racconti suscitano? Proprio la campagna per la Brexit e la campagna elettorale di Trump, soprattutto visti i risultati, hanno reso quasi scontata la risposta, portando a parlare già di “era della post verità”. Eppure si tratta di un bel paradosso che non dovrebbe lasciare indifferenti.
Ricerche Google per la query “post truth”, tutto il mondo, ultimi 5 anni (Google Trends)
Mai come ora sono state infatti disponibili tante notizie, di prim’ordine, accessibili semplicemente con un clic e una connessione internet. L’accesso all’informazione non è mai stato tanto democratico. Ma proprio perché le notizie sono tante è sempre più difficile distinguere le vere dalle false, evitando la confusione. Siamo circondati dalle informazioni, ma lo siamo sempre più nel sospetto che alcune di queste siano inventate, distorte o incomplete. “Fake news”, per dirla con il neologismo che sta contrassegnando il tema sul web come nelle campagne politiche.
Ricerche Google per la query “fake news”, tutto il mondo, ultimi 5 anni (Google Trends)
E così finisce per essere intaccata anche la credibilità delle fonti tradizionalmente più affidabili e quindi delle notizie controllate e vere. Non è un caso che il New York Times per la sua campagna d’abbonamento abbia scelto slogan come “Scopri la verità con noi” o “Solo fatti, nient’altro”; concetti che, per dirla con l’editorialista della stessa testata Roger Cohen, dovrebbero suonare come “tautologie ridicole, come parlare di vita umana basata sull’ossigeno”.
Diffondere bufale e fake news equivale invece oggi non solo a disinformare o “mal-informare”, bensì a far estendere le ombre del web sopra le sue luci, quelle della concorrenza pluralista delle fonti e dell’autonomia di giudizio dei cittadini. Perché se la verità percepita finisce per essere definita dalle emozioni più che dai fatti per sé stessi, il rischio è che la gente cominci a credere sempre più spesso a ciò che ama o che fatica meno a credere. Ecco perché la sfida alla verifica delle notizie sul web è cruciale, e da ciò dipende la qualità della nostra informazione.
Di questo rischio epocale si sono accorti i grandi player del digitale, a partire da Facebook, che ha avviato in via sperimentale un discusso sistema che avvisa gli utenti quando la veridicità di un post è stata contestata da alcuni fat-checkers indipendenti. Google ha scelto invece una strada diversa. La sua “Digital News Initiative (DNI)”, un fondo di finanziamento finalizzato a sostenere il giornalismo di qualità attraverso la tecnologia e lanciato con 11 partner nel 2015, include ormai diversi progetti che si prefiggono di arginare o eliminare il problema delle bufale e delle fake news sviluppando un qualche sistema di fact-checking.
I progetti scelti da Google in questo campo sono in maggioranza con sede nel Regno Unito e sono soprattutto start-up, piccole realtà ambiziose.
Tra i vincitori c’è anche anche l’italiana Catchy, società che costruirà una chiara e semplice interfaccia grafica che, a richiesta, presenti le informazioni relative ad una certa tematica disponibili sulla rete, offrendo ai giornalisti una valutazione sulla loro affidabilità. Il tutto in tempo reale. Per fare ciò Catchy svilupperà un algoritmo di machine learning, che regoli un sistema statistico semi-automatico d’analisi. Sarà la valutazione dell’attività degli utenti a condizionare la reputazione futura e il riconoscimento della validità delle fonti. Nella convinzione che la verità debba anche essere interessante per imporsi sopra bufale e fake news, a regime l’applicazione sviluppata fornirà all’utente uno stream di fonti selezionate da fruire con diversi metodi di visualizzazione, dai canali tradizionali fino alla realtà virtuale o aumentata.
Con un’idea simile intendono lavorare i britannici di Factmata, ossia con un sistema che dia potere ai reclami degli utenti. Questo progetto si basa sull’assunto che il falso possa essere smascherato ascoltando la gente comune e propone quindi di verificare articoli e trascrizioni di discorsi politici.
Gli ungheresi di Mertek puntano invece sia sugli utenti, sia sui giornalisti. Creeranno un ecosistema finalizzato ad accrescere il pensiero critico e l’oggettività di entrambi. Il risultato, ai fini della verifica, sarà la pubblicazione di valutazioni critiche sulle notizie.
Ma per prevenire il crearsi del problema è anche bene agire, dare gli strumenti alle fonti. E così dal Regno Unito le persone di Vivarta forniranno ai giornalisti una piattaforma per l’acquisto di informazioni verificate e affidabili, accessibili rapidamente ed in modo sostenibile.
Oltre ad agire sulle persone, altri progetti britannici propongono un approccio prevalentemente informatico. Così la Ferret Fact Check (UK) sta sviluppando uno strumento non solo per valutare le fonti, ma anche per mostrare i processi che le informazioni hanno subito, le interpretazioni circolanti e gli usi.
La Full Fact (UK) invece sta raccogliendo automaticamente i reclami su dibattiti politici e altre informazioni inviando una segnalazione di inesattezza direttamente agli autori. Lo strumento, sfruttato al meglio delle sue potenzialità, potrà verificare statisticamente le notizie in modo automatico, ed emettere così il suo verdetto.
Particolare è poi l’obiettivo di Counterpointing (UK): far scoppiare la cosiddetta “bolla di filtraggio” con una serie di strumenti che diano uno spettro di prospettive alternative credibili ogni volta che l’utente le necessiti. I primi prototipi includeranno un browser plugin e un’app su Facebook che saranno svelati nel corso del 2017.
Un’altra strategia per rendere più affidabili ed accurate le notizie consiste poi nel favorire la creazione e la divulgazione di database open source, da verificare nei contenuti. Fra i progetti che usano questa base, insieme a dati provenienti dai social media si trovano i britannici di Bellingcat, che studieranno i conflitti nel mondo in tempo reale in modo da dare guide ed esempi a giornalisti, esperti ed organizzazioni per i diritti umani.
Lavorano infine in questa direzione anche gli spagnoli di Europa Press, che rappresentano il progetto di dimensioni maggiori tra quelli finanziati da Google nel campo.
Sono progetti come questi che ad oggi invitano a non prendere per retorica la domanda posta dal Times. Se non è dato sapere quali sorti avrà il concetto di verità così messo nuovamente e fortemente in crisi nel mondo digitale, sappiamo che è lo stesso mondo digitale che sta cercando di dare una risposta. La strada sarà lunga, ma le idee sono molte.