Quando nel 2010 Sean Ellis coniò il termine “growth hacking” il mondo del digitale era ancora molto distante dalle rivoluzioni che lo avrebbero attraversato negli anni a seguire. Pochi sapevano effettivamente di cosa si trattasse, ma la crescita esponenziale di numerose startup della Silicon Valley ha confermato in breve tempo quanto quella sconosciuta sintesi di creatività, orientamento al marketing e ossessione per i dati potesse essere davvero l’unica via possibile per restare a galla all’interno di un mercato economico dalle dinamiche sempre più competitive.
Parola anche di Raffaele Gaito, classe 1984, talentoso growth hacker che è riuscito a ritagliarsi e a conservare una consistente fetta di autorevolezza nel settore informatico, economico e della comunicazione. E proprio a lui abbiamo scelto di rivolgere una serie di interrogativi, utili a comprendere verso cosa si sta muovendo il settore delle startup e delle PMI.
In senso lato, di cosa parliamo quando facciamo riferimento al Growth Hacking? Quali sono gli attori coinvolti e le competenze necessarie per riuscire?
Per rispondere a questa domanda, mi permetto di scomodare Michael Brenner, uno dei top influencer a livello mondiale sul tema marketing. Brenner ha detto: «Il Growth Hacking è marketing, è il futuro del marketing, è quello che il marketing doveva essere fin dall’inizio». Adoro questa definizione perché ci fa capire, in un solo colpo, che stiamo guardando al futuro di un settore, pescando in maniera massiccia nelle sue origini, nelle sue radici. La verità, infatti, è che si tratta di molto più che marketing. Il Growth Hacking è una metodologia che si piazza a un livello superiore e vede il marketing come uno dei tanti strumenti nella sua cassetta degli attrezzi. Il Growth Hacking ha infatti l’obiettivo finale di puntare alla crescita di un’azienda e per farlo non è detto che si debba ricorrere sempre e solo al marketing.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, è errato pensare che il Growth Hacking sia un’attività gestita da una singola persona: si tratta di un processo che coinvolge molti soggetti in azienda. Solo così si può coniugare la creatività, l’orientamento al marketing e l’ossessione per i dati: mettendo in piedi un team che copra tutte queste competenze. In uno scenario del genere il ruolo del Growth Hacker “puro” diventa quello di gestire questo processo facendo da collante tra reparti che fino a qualche anno fa non si parlavano.
È finita l’epoca nella quale il reparto marketing non sapeva cosa stesse facendo il reparto prodotto. Oppure quando i commerciali non si parlano con il customer care. Oggi è impensabile utilizzare un approccio del genere. Tutto il team deve remare in una sola direzione (quella della crescita aziendale) con un obiettivo chiaro in mente (una metrica ben definita). Questo è esattamente quello che fa il growth hacking!
Qual è l’attuale quadro italiano in cui si ritrova a lavorare un Growth Hacker? Rispetto all’avvento della materia, quali passi in avanti sono stati compiuti nel nostro Paese?
La situazione è decisamente migliorata negli ultimi due anni. Se 4-5 anni fa, quando ho iniziato, in Italia eravamo in due a parlarne e si poteva solo studiare dal materiale americano, oggi esiste tanto anche nella nostra lingua: ci sono libri, corsi, agenzie, consulenti e finalmente anche le università si sono aperte alla materia.
Ovviamente ciò ha dei risvolti positivi e negativi, perché dall’altro lato è anche aumentato l’hype intorno alla materia con l’arrivo inevitabile di sciacalli e pseudo esperti dell’ultima ora che tentano di vendere per growth hacking quello che growth hacking non è.
Questo però è inevitabile, accade in tutti i settori e succede con tutti i trend. È un aspetto che non mi ha mai preoccupato, sia perché credo nella selezione naturale di chi lavora bene creando valore, sia perché solitamente dopo qualche anno arriva un nuovo trend e l’attenzione si sposta altrove.
Direi che uno degli aspetti più interessanti è il fatto che negli ultimi 12-18 mesi è aumentata notevolmente l’attenzione verso l’argomento da parte di PMI e grosse aziende. Finalmente si sono rese conto che non si tratta di una metodologia ad esclusivo appannaggio delle startup e che anche i business più tradizionali possono trarre giovamento da un approccio del genere.
Nell’ottica del growth hacking come sintesi di strumenti di marketing online, social media e strategie ben definite, come potremmo definire\spiegare i benefici reali che una startup o una PMI può ottenere attraverso il ricorso a questo tipo di supporto strategico?
I benefici sono diversi e sarebbe impossibile elencarli tutti in questa sede. Io, come prima cosa, farei sicuramente una distinzione dei benefici in base al punto di vista con cui analizziamo la situazione:
* Impatto sui processi: il Growth Hacking ha un impatto molto forte sui processi interni dell’azienda andando a introdurre metodologie, best practice e strumenti che semplificano, velocizzano e snelliscono diversi step.
* Impatto sul mindset: un altro grosso aspetto è l’impatto che questa metodologia ha sulla cultura aziendale con l’introduzione di un approccio data-driven, del focus assoluto su una metrica e così via.
* Impatto sul prodotto: l’impatto più importante è probabilmente quello sul prodotto, sia che si tratti di progetti in corso d’opera che di business più stabili. Il mettere l’utente al centro del processo cambia completamente il modo con il quale si realizzano e si vengono i propri prodotti e servizi.
* Impatto sul fatturato: l’ho volutamente lasciato per ultimo, perché è l’aspetto più raccontato e più “sexy” dell’intera faccenda, ma ovviamente l’obiettivo finale del growth hacking è quello di far crescere un’azienda. Attenzione però, perché parliamo di una crescita scalabile e sostenibile, che non è per nulla scontato.
Forte della sua esperienza, quali potrebbero essere i prossimi passi da compiere per far sì che il comparto cresca in maniera proporzionale nei prossimi anni e diventi una concreta e diffusa occasione di crescita professionale per tanti giovani?
Penso che nei prossimi 2-3 anni succederà quello che negli USA è successo a cavallo del 2016-2017, ossia la fine dell’hype intorno alla parola growth hacking e l’affermazione di questa metodologia come semplice “marketing fatto bene” o “business fatto bene”. In fin dei conti è di quello che si tratta e non mi stancherò mai di dirlo: il 99% di questo approccio è buon senso e best practice messe nero su bianco con degli step ben definiti.
Gli attori coinvolti in questo cambiamento sono diversi e c’è bisogno del contributo di tutti: le aziende devono essere più aperte verso la sperimentazione (e il fallimento), i vari esperti/consulenti devono concentrarsi sugli aspetti concreti e meno sulle buzzword, i media devono iniziare a raccontare un po’ di casi studio nostrani e gli studenti, dal canto loro, devono capire due cose importanti:
1. Quando esci dall’università bisogna mettersi a studiare di nuovo, a studiare sul serio. Senza nessuno che ti dica cosa e perché, ma scegliendo in base a quello che è il vero mercato del lavoro.
2. Bisogna sporcarsi le mani per avere rilevanza sul mercato del lavoro attuale. Buttarsi su un progetto di un amico, di una startup o lanciare qualcosa di proprio è il modo migliore per non avere il “classico cv vuoto” dopo la laurea.
C’è un bilanciamento della teoria e della pratica al 50/50 da cui non si sfugge. Pensare di smettere di studiare è l’errore più grave che un giovane può commettere!